Concertone per Bobby Dylan e Mark Knopfler: oltre 3 ore di musica, equamente divisa.
Puntuali, in forma, eccellenti professionisti, e capaci anche di trasmettere emozioni.
Comincia l'ex inventore dei Dire Straits.
Cambia la Stratocaster con la Gibson Les Paul e poi ancora una chitarra acustica.
Spazia da motivi che richiamano le origini della musica americana, quella del Grande Paese Rurale, quasi hillbilly, e le collega con la tradizione irlandese, fino a spingersi a qualche pezzo rockabilly.
Un vero cultore della musica, che ispeziona e riporta alla luce reperti storici, rinnovandoli con la sua chitarra solista geniale.
Solo due richiami al gruppo storico, con una lentissima "Brothers in arms" e una trascinante "So far away".
Poi, quando già potrebbe bastare così, entra quell'altro, Dylan.
Allora e' un'abbuffata.
Per le prime tre canzoni, tra cui una stralunata "It's all over now baby blue", si fa accompagnare da un Knopfler per nulla invadente, rispettoso, che si tiene a distanza.
Dopo aver condiviso il palco, Dylan si scatena, e' in forma. Gracchia piu' di Waits, e' elettrico come Hendrix, fa vibrare l'armonica piu' di Guthrie, ha voglia di suonare come solo lui e il suo Never Ending Tour comunicano. Un piacere vederlo cosi'.
E la scaletta di 13 brani e' una impressionante sequela di Canzoni storiche: Tangled up in blue, Desolation row, Highway 61, Simple twist of fate, Ballad of a thin man (Da ya Mr. Jones), All along the watchtower.
Finisce con la piu' bella canzone di sempre, Like a rolling stone.
Che impersona il suo modo di essere: potrebbe essere autobiografica, quella che lo descrive meglio. Per questo non concede il bis. Ha gia' detto tutto di se stesso.
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