Disco apertamente osteggiato su più fronti, “Let it bleed” appare come la versione spietata, almeno dal titolo, del quasi omonimo beatlesiano “Let it be”. L’alone di leggendaria cattiveria non si traduce poi, in effetti, nel contenuto dell’album. I problemi, anno 1969, furono più che altro legati alla morte di un ragazzo 18enne, Meredith Hunter, accoltellato durante il concerto degli Stones, allo Speedway di Altamont.
La traduzione letterale del titolo (letteralmente “Lascia che sanguini”) sembrò una beffa del destino, ma gran parte dell’establishment pose la band sotto accusa per l’eccessività di alcuni dei loro testi e del comportamento spesso violento. E forse non a torto.
L’anno precedente era stata pubblicata, infatti, una delle loro canzoni più famose, intitolata però “Sympathy for the devil”, inclusa nello splendido “Beggar’s Banquet”; a luglio dello stesso anno 1969 era morto, putroppo, the leading Brian Jones, annegato nella piscina di casa, nel Sussex, e sembra non a causa di un’onda anomala.
L’album venne registrato in un’atmosfera che definire stridente e' un eufemismo. Non tutta la band era d’accordo sui contenuti e la morte di Jones, la cui batteria e' presente tuttavia in due canzoni, forse sfaldò quel briciolo di consenso ancora presente.
Probabilmente sono questi i momenti in cui si forgiano i miti della musica rock. La loro faretra aveva espresso uno dei migliori titoli della loro discografia, accompagnata da una copertina dissacrante: i diversi elementi circolari (una torta,una pizza di un film, un copertone ...) che formano un castelletto nel lato anteriore (idealmente legati ai Beatles?) si sfaldano in mille pezzi nella parte posteriore (la dura realtà che gli Stones non nascondono?).
Le registrazioni contarono, tra l’altro, sulla partecipazione di due elementi di ottima foggia: il chitarrista Ry Cooder e il prevalentemente tastierista Al Kooper.
Non tutti i brani sono memorabili, sebbene valga la pena di ascoltarne qualcuno con particolare attenzione. Il riferimento e', senz’altro, per “Gimme shelter”, “Love in vain” e “Midnight rambler”. Proprio in questo vagabondo di mezzanotte stanno le note più caratteristiche della vena creativa di quel periodo. Considerazione a parte merita una canzone entrata a pieno titolo nell’olimpo del rock ‘n roll: “You can’t always get waht what you want”. Scintillante da un lato, rabbrividente dall’altro, soprattutto per chi la ricorda leit motiv degli attimi iniziali dell’altrettanto straordinario “Fandango”. Consentitemi di ricordare una persona fantastica, legata a questo motivo, lo cantava con la erre blesa, e l’amava particolarmente.
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