Sunday, July 31, 2005

If I Should Fall From Grace with God - The Pogues

E' tra le migliori performance degli irlandesi Pogues.
“Rum, sodomy & the lash” e', probabilmente, piu' completo, ma anche in quest’album stillano ancora gocce di energia della vena creativa dell’epatico Shane McGowan.
Ne e' testimonianza la sanguigna, garibaldina “Fiesta”; si puo' leggere tra le righe l’autobiografia piu' sincera del gruppo: gli alcolici piu' disparati, brandy, half corona, cinquanta “cincampari”, la voglia di non prendersi molto sul serio, l’avversione nei confronti del sistema, mentore del feeling di Shane con il punk, espressa con l’astio verso Elvis Costello, “el rey del America” precedente produttore della band, ora nuovo sposo di Cait O’Riordan. Sembra una rilettura atipica delle scorribande di un giovane Hemingway, tra buone dosi di mohito, preparati dal suo fedele barman Constante, corride raccontate con la foga di chi ha una banderilla sulla schiena, la paura di non essere compresi per cio' che si e' davvero.
Il richiamo alla tradizione celtica, cui il gruppo e' molto legato, torna continuamente: il coro dei ragazzi del NYPD che intona “Galway bay”, un vecchio uomo che canta “The rare old mountain dew”; entrambi i riferimenti si scorgono nell’apparentemente struggente “The fairytale of New York”: dolce melodia interrotta a tratti dalle accuse di Shane e Finer che ricordano come in qualsiasi posto ove tu vada, beh, potrai vivere ovunque ma da nessuna parte ti sentirai a casa e potrai amare come in Irlanda.
Di tutt’altra fattura e' invece la nervosa “Bottle of Smoke”: scalciante come il cavallo Bottle of Smoke, protagonista involontario di questo racconto, fumosa e torbida come i locali favoleggiati da Tom Waits, dura come puo' essere la vita per chi non ha altro che sperare la fortuna nel gioco d'azzardo.
La stessa evocazione di tristezza, ma vista dall’altra parte, e' quella che descrive Phillip Chevron in “Thousand are sailing”; racconta, e ci piace collocarla in quel frangente storico, la fuga di migliaia di irlandesi verso il mondo scintillante d’oltreoceano, dopo la carestia che afflisse l’Irlanda nei primi anni del secolo, dovuta al morbo delle patate. La melodia e' armoniosa come lo sguardo tenero delle madri ai figli al porto di Cork, come i soldi nascosti sotto il cappello, come l’attaccamento alla speranza e il coraggio di chi, nonostante tutto, rimane vivo dentro. Ci piace pensarla cosi', perche' allora anche la stirpe italica con le valigie di cartone, cui De Gregori stacca un biglietto di terza classe per navigare fino in America, era capace di quei sentimenti.
Stop the drop! “South Australia” e' un ritmo travolgente, una ballata popolare energica, una corsa a perdifiato, doppiando Capo Horn; e' la vitalita' ribelle di Holden Caulfield che gira per la citta' sprezzante...
Merita sicura citatazione “Lullaby of London”. Conferma la sensibilita' di uno strano Shane, forse la volonta' di percezione di un sentimento di affetto, di lucida calma, di tranquilla serenita' in una vita spremuta ogni giorno. E dopo quest'attimo di respiro tutto ricomincia a scorrere veloce: “The Battle March Medley”, “Sit Down By The Fire”, “The Broad Majestic Shannon”.
E poi ancora “Medley”, per restare nella tradizione ed in particolare nella schiettezza celtica che ha reso l’Irlanda limpida come i suoi cieli e accogliente come i suoi immensi prati.
Assurge ad epilogo, ma non a monito, “Worms”, dal testo ironico: appena qualche strofa per confermare questa band che non si prendera' mai sul serio, neanche di fronte alla morte. E non e' un caso, forse, che questo motivo si trovi alla fine dell’album, come per sancire l’ottima chiusa di un periodo di grazia, appunto “grace” come nel titolo dell’album, quella grazia che i prodromi dei Pogues Mahone difficilmente troveranno ancora.

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