Wednesday, August 31, 2005

Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band - The Beatles

1967. La tendenza del momento era il “concept album”: la voga stava divenendo mania e lo divenne effettivamente quando i ragazzi di Liverpool segnarono uno degli highlights della loro carriera suonando nella banda dei cuori solitari del “sergente peperoncino”.
Nel comporre la magica fiaba di Pepperland, the fab fuor subirono decisamente l’influenza della west coast, che in quel periodo ospitava i Doors come lucertole a Venice, Albert Hoffman da Berkley cantore dell’acido lisergico, i Beach Boys surfare sulle onde del successo di “Pet sounds”.
“Pet sounds” racconta del viaggio dell’uomo che si sgancia dall’adolescenza: Paul ne rimase affascinato. Probabilmente perché in molti frangenti di quel mondo lo statement dell’ambiente artistico era il “viaggio”: e dei viaggi c’era anche il capitano, Jerry Garcia, aka “Captain Trip”.
La svolta epocale che i Beatles segnarono con la registrazione, al limite del parossismo (duro' sei mesi), di Sgt. Pepper fu il loro accostamento definitivo al flower power, make love not war, che incastro' definitivamente Lennon piu' avanti.
Cambio' il loro modo di scrivere, piu' maturo, cambio' il modo di fare musica, almeno un po’ psichedelico e sperimentale, cambiarono soprattutto loro quattro; quel modo di pensare, vivere, scrivere, amare, noto come filosofia hippy, sarebbe durato qualche anno: si sarebbe infranto piu' avanti e i Beatles insieme, inesorabilmente. Si, erano cosi' strettamente connaturati.
L’album contiene perle lucenti come “Lucy in Sky with Diamonds”, immaginaria piu' della leggenda intorno al suo titolo (l’acronimo delle iniziali e' LSD); e' una pennellata di Balla, un sorpasso di Senna, un libro di Irvin Welsh; e' la briglia che si scioglie sotto i colpi di mohito: e' la fantasia allo stato puro, il paese dei balocchi, Mangiafuoco…
Allo stesso scintillio arriva anche “A little help from my friends”, sebbene contenga geneticamente una memorabilia: indimenticabile e' l’interpretazione di Joe Cocker a Woodstock, aggrappato alla bottiglia ed all’asta del microfono piu' che agli amici, con la stessa voce da bluesman che e' fluita dalle corde vocali dell’inchiostro che l’ha tracciata.
La preferenza personale, se puo' esserci spazio, va ad una canzone apparentemente innocua, ma con grandi pennellate di quotidiana umanità. E' la vita floreale di chi, tra le milestone del viaggio, ha quella di sedersi con i nipoti sulle gambe; e non c’e' distonia tra il testo della canzone e l’ideologia floreale: l’assenza di sovrastrutture, la dolcezza degli accordi, il modo con cui ti guardero' negli occhi durante la gita alla domenica, il sorriso con cui aggiustero' una lampadina quando "When I'm sixty-four" appaiono le conseguenze sociali di mettere un fiore nella canna di ogni fucile. Potrebbe avere come reprise ideale “Wishin’ and hopin’”.
Nell’album, invece, e' la reprise dell’omonima “Sgt. Pepper” a condurci alla fine dell’album, dopo essere passati per ottimi pezzi, “A day in the life”, “She’s leaving home”, ed altri non assolutamente fondamentali, vero mister Kite?
Le voci del rock sostengono che motivi commerciali avrebbero impedito all’album di contenere “Penny Lane” e “Strawberry fields”. Beh, forse e' un sollievo: non sarebbe divertente per chi compone musica se fosse già stato pubblicato qualcosa di insuperabile. La presenza di “Strawbeey fields” avrebbe consegnato, tuttavia, il permesso al 33 giri piu' conosciuto della storia di contendere un posto nel cuore a quello che resta un capolavoro insuperato, “Pet sounds”.

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